Bruxelles, obiettivi ambiziosi o fumosi?

Si è concluso il Bruxelles summit del 29 e 30 ottobre. I leader di Eurolandia hanno puntato a rilanciare la lotta al gas serra, con un obiettivo prestigioso: tagliare le emissioni dell’80 o anche 95% entro il 2050. Questa dovrebbe essere la piattaforma comune da riproporre a Copenaghen, il prossimo mese, per la ratifica di ciò che si annuncia il “nuovo protocollo di Kyoto”.

Ma i protagonisti, questa volta, non dovranno essere solo i governi, ma soprattutto l’opinione pubblica globale. L’obiettivo di Bruxelles, infatti, diverrà realtà solo se le altre nazioni non-Ue assumeranno impegni analoghi. Sarà decisiva, quindi, l’azione di pressione da parte di tutta l’opinione pubblica per spingere gli Stati coinvolti ad ottemperare ad obiettivi tanto prestigiosi. Certo, l’anno scorso, l’Unione Europea convenne nel ridurre le emissioni di gas serra del 20% unilateralmente, a prescindere da quello che le altre nazioni avrebbero fatto. Ma proprio l’ultimo report della Banca Mondiale, presentato il 29, ha portato nuove evidenze di quanto anche il 20% potrebbe non bastare.

Raggiungere il consenso su obiettivi di riduzione maggiori, quindi, suona come l’ultima chiamata per il pianeta Terra, a protezione di habitat che rischiano una distruzione irrimediabile. La cosa che più preoccupa, in definitiva, è che i rischi maggiori li stiano attualmente correndo soprattutto i Paesi africani, il cui ruolo nella implementazione di tali politiche è marginale. La posizione comune Ue, comunque, è stata alla fine raggiunta: Bruxelles si impegna a ridurre le emissioni di un ulteriore 30% a patto che “gli altri Paesi sviluppati” si impegnino in una “riduzione comparabile” e che Cina e India “contribuiscano adeguatamente secondo i loro livello di emissioni e capacità.”

Ma non è solo il fatto che anche le altre nazioni dovranno assumere “impegni analoghi”, in definitiva, a preoccupare. Alcune associazioni reputano che le cifre sparate da Bruxelles in tema di emissioni, siano, in realtà, manipolate. Secondo la Ong inglese Sandbag, ad esempio, l’Unione ha fatto i conti su dei parametri truccati: il taglio di emissioni è stato calcolato a partire da proiezioni degli anni 90, quando un vero e proprio processo di deindustrializzazione colpì il mondo ex sovietico, falsando l’equilibrio europeo. Con l’Europa occidentale che inquinava troppo, e quella Orientale che, con la caduta del Muro, non inquinava affatto. In effetti, le tensioni interne alla Ue che hanno caratterizzato la negoziazione della proposta del summit di Bruxelles rivelano che le ipotesi della Sandbag poggiano su solide argomentazioni.

Nel mercato dei permessi che ha regolato il meccanismo delle emissioni nella Ue, finora, i Paesi dell’ex blocco sovietico vantano dei veri e propri crediti, chiamati AAU, Assigned Ammounts Units, determinatesi a partire dal fatto che, proprio dopo la caduta del Muro, il processo di deindustrializzazione che coinvolse l’Est bloccò ogni tipo di emissione inquinante. Quando il processo negoziale, a Copenaghen, verrà esteso agli altri Paesi, inoltre, si dovrà discutere di un aspetto cruciale per la riuscita del nuovo protocollo: le compensazioni ai Paesi in via di sviluppo per adottare energie pulite. La Commissione dell’Unione, infatti, ha attualmente proposto una cifra compresa fra i 20 e i 50 miliardi di euro all’anno, fino al 2020. Troppo, secondo Londra. Mentre i Paesi dell’Est, invece, non vogliono proprio proporre alcunché, almeno fin quando Bruxelles non si sarà decisa ad estendere la validità degli AAU, che scadono insieme al Protocollo di Kyoto, nel 2012. Il problema, per la Polonia, è che il Paese rischi di pagare troppo le nazioni in via di sviluppo per non inquinare quando essa stessa, a causa della deindustrializzazione subita, non inquina quanto Parigi o Berlino.

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