Il governo di Napoli fra plebei e ottimati

Può un’aiuola favorire la plebeizzazione di una città? Secondo Biagio De Giovanni, filosofo, politico e rappresentante insigne della cultura napoletana, sì.
Ieri dalle pagine del Cormezz, il filosofo discetta di aiuole, semafori e pedonalizzazioni, per giungere alla conclusione che, attraverso i dispositivi di mobilità, Luigi de Magistris stia favorendo questa “plebeizzazione” di Napoli che, per chi conosce De Giovanni, è un vero leit motiv del suo pensiero.

Analisi non nuova, su Napoli, legata al pensiero di Croce e Gramsci, dove si postula l’assenza di una vera borghesia incapace di esprimere un’egemonia e di favorire sia il progresso che l’emancipazione di una plebe dolente, priva di “presenza” in senza crociano, che “attraversa la Storia senza possederla”.
Ad una prima lettura, ero rimasto esterrefatto all’artifizio di saldare temi così elevati alla prosaica scelta di erigere aiuole.
Poi ho capito che De Giovanni, più compiutamente di altri, aveva espresso un vero e proprio paradigma: lo definirei “coscienza inessenziale”, in omaggio alla passione per Hegel di De Giovanni.

In effetti, l’intellighenzia napoletana, da mesi, con le sue cattedre di filosofie teoretica, si è messa a discutere appassionatamente di bici e Ztl. Per carità, argomenti degnissimi.
Ma com’è possibile che invece di riflettere su diritti civili e testamento biologico, temi sui quali l’amministrazione de Magistris si è misurata, si parla solo di pedonalizzazioni?
E’ il trionfo della praxis sull’episteme?
In realtà la chiave di volta è proprio in quell’accusa di “governo plebeo” di cui sarebbe reo de Magistris, che avrebbe trasformato il Lungomare, il “salotto buono della città”, in uno struscio da sagra paesana. Ho già altrove analizzato il sostrato sgradevolmente classista di queste lamentazioni.
Ma, nel caso di intellettuali come De Giovanni, l’analisi è molto più complessa e sottile.

La borghesia colta napoletana, con il proprio passato da intellettuale organico del Pci, si richiama fortemente al lascito dei giacobini del ’99. E’ stata marxista, ma non ha mai condiviso l’idea che il proletariato fosse la vera classe rivoluzionaria; la plebe napoletana, cioè il sottoproletariato napoletano, era da educare e guidare: “tutto per il popolo, nulla mercè il popolo, diceva Voltaire.
Con l’eccezione di pochi anarchici – come Enrico Malatesta che, sulla scia di Bakunin, era convinto che proprio dalle classi più umili, magari i contadini del Matese, dovesse partire un movimento di riscatto del Sud -, per gli intellettuali napoletani, il Mezzogiorno era la patria del sottoproletariato sanfedista, non del proletariato rivoluzionario.

Dal giacobinismo all’avanguardismo leninista e al marxismo di Labriola, la borghesia intellettuale napoletana è elitista e condivide una concezione aristotelica della democrazia. Per Aristotele, la democrazia era una forma corrotta di governo, il governo della moltitudine, povera e incolta, che prendeva le decisioni sulla testa dei sapienti.

Ecco perché a Napoli, città spaventosamente povera, più democrazia non può che significare più plebe. De Giovanni stigmatizza, infatti, la “democrazia di strada”, che altro non è che la democrazia tout court, che non funziona in una società porosa come quella napoletana, che abbisogna di elites che guidino il popolo.
Non sto sostenendo semplicemente che de Magistris sia un ultrademocraticista sessantottino al quale si contrappone una borghesia riformista ed elitista. Né che maggiore democrazia (e plebe) sia un bene in sé. Ma il dato è che nella città dei Vice Re, dove non c’era un monarca che regnava ma un potere, che attraverso un sistema di cerchi concentrici, gestiva in modo consensuale il governo con la classe degli ottimati, le decisioni, ora, non avvengono più mobilitando gli intellettuali organici, in questo modo legittimati dal potere politico.
De Magistris alterna decisionismo ad assemblearismo e, in entrambi i casi, non riconosce a questa classe di intellettuali né lo status di interpreti della realtà sociale napoletana, né la funzione di governare con il Vice Re e guidare il popolo verso il sol dell’avvenir.

In questo, la differenza con il ventennale governo passato di Bassolino e Iervolino é abissale. De Magistris non frequenta i salotti dove gli ottimati incontrano Kounellis o Pistoletto, non ha incardinato come vice-sindaci i più autorevoli fra i notai e avvocati della città, non si fa consigliare dagli intellettuali. Fa bene o fa male?

La marginalizzazione degli ottimati è un fatto positivo? Il Pizza village sul Lungomare ha riscosso sicuramente più successo di Damien Hirst al Madre: ma è questo un passo avanti per la città?

Sospendo ogni giudizio: cerco solo di capire da dove nasce l’idea che, attraverso un’aiuola, si renda Napoli plebea. E’ il metodo decisionale di de Magistris a favorire una marginalizzazione degli ottimati e a porre le condizioni per una plebeizzazione della città? La plebeizzazione è l’epifenomeno del superamento dei “poteri forti” o il frutto di un errore? L’errore di non aver capito che Napoli non la si può governare senza queste elites; e il tema è semmai garantire che queste elites migliorino Napoli piuttosto che gestire un potere autoreferenziale attraverso cui perpetrarsi nella burocrazia, nelle università, nei migliori studi professionali cittadini.
Sicuramente de Magistris non ha sciolto questi nodi. Ma anche gli ottimati, nel frattempo, vagano all’infinito come le anime in pena, immortalate nel celebre film “Il fascino discreto della borghesia”.

Non si può d’altronde dimenticare che gli ottimati hanno governato, e sono corresponsabili sia delle condizioni della città che delle sofferenze del Pd.
Infine, dal Pci ad oggi, incombe la nemesi.

E’ proprio in forza di questo scetticismo di fondo verso la democrazia in una città dominata da “un popolo senza presenza” che oggi, la gran parte degli ottimati, con un passato nel Pci, o prendono le distanze dalla sinistra o si ascrivano al centro-destra e a partiti liberal (lo stesso De Giovanni, alle ultime elezioni, ha appoggiato Monti) o, ancora, cercano di favorire un Pd neo-democristiano.
Perché il governo consociativo è l’esito fisiologico là dove il popolo è pericolosa plebe.

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