Le febbre cinese

Nel momento in cui le economie dei principali Stati, sotto il morso della crisi, si contraggono o ristagnano, come va per la Cina? Può essere un modello? Vale la pena ricordare come, in questi anni, nell'Europa dell'austerità, si è blaterato di come l'Unione Europea sarebbe stata salvata proprio da Pechino, grande motore del nostro export. Questo progetto è credibile? Apparentemente, il modello cinese funzionerebbe. Il gigante asiatico, negli anni compresi fra il 2000 ed il 2012, ha fatto registrare un tasso medio di incremento del PIL pari al 16,5%; appena inferiore è stata la crescita del PIL pro-capite, pari al 13,8% annuo. Ma la verità è più complessa; la crisi ha influenzato e non mancherà di condizionare nel prossimo futuro anche Pechino. L'Impero di Mezzo, infatti, ha potuto realizzare un immane processo di modernizzazione e di sviluppo attraverso un sistema basato sull'export, tale da garantire quei flussi finanziari che gli consentono di soddisfare la sua inesauribile sete di materie prime e di garantire l'acquisto delle tecnologie occidentali. Ma fare i conti su di una Cina "spugna" del sistema è molto più rischioso. Nell'ambito della programmazione quinquennale di quella che si autodefinisce "economia socialista di mercato", la traiettoria di sviluppo scelta comporta - contestualmente - la compressione dei livelli di vita individuali attraverso un tasso di cambio della moneta mantenuto artificialmente basso, incrementi salariali limitatissimi e al di sotto dell'inflazione reale, espropri dei terreni agricoli e trasferimenti forzati dei contadini verso le città industriali; a tale proposito, il sistema di registrazione della sola residenza di origine impedisce di fatto alle plebi inurbate di usufruire del pur modesto welfare garantito dallo Stato! Tali meccanismi hanno consentito comunque alla Cina di progredire e di affermarsi sui mercati mondiali. Ma la crisi del 2007/2008, pregiudicando la capacità dell'Occidente di importare crescenti quantità di merci cinesi, ha messo a nudo una serie di discrasie intrinseche. Oggi, il dodicesimo Piano quinquennale 2011/2015 si è ripromesso di perseguire una nuova serie di obiettivi: a) il rebalancing dell'industria verso produzioni caratterizzate da più elevati contenuti tecnologici e da maggiore valore aggiunto: attualmente gran parte dell'export è rappresentato da prodotti a basso costo e di mediocre qualità nei settori del tessile, delle calzature, dei giocattoli, degli elettrodomestici, mentre gli articoli più qualificati sono spesso semplici assemblaggi locali di merci ideate all'estero; b) uno sforzo di delocalizzazione di parte della macchina produttiva dalle regioni costiere del Guandong e dello Zhejiang - ormai ipercongestionate - verso le aree interne a minore densità industriale; c) una migliore allocazione del credito, garantito dalle banche pubbliche, dalle grandi corporation di stato alle piccole e medie aziende, generalmente private; d) l'impegno a ridurre le disparità di reddito che sono sempre più evidenti nella società e a costruire una vera classe media. Attualmente, secondo Forbes, la Cina ha il maggior numero di milionari dopo gli USA ed il secondo PIL al mondo, sempre dopo gli States; ma nella più significativa classifica del PIL pro-capite è solo (fonte IMF) al 92esimo posto con un reddito medio di 9.200 $, contro i 30.800 della Corea, i 36.200 del Giappone i 61.000 di Singapore. Un paradigma di sviluppo ineguale, molto poco socialista. In che misura, allora, sono realistici gli obiettivi che si prefigge la nomenklatura cinese? Alcune semplici osservazioni: lo sviluppo sin qui conseguito ha avuto costi ambientali enormi. Le città cinesi, in primis Pechino, sono le più inquinate del pianeta; nelle metropoli industriali del Guandong si sono già superati i livelli minimi di vivibilità, l'inquinamento coinvolge anche i laghi ed i grandi fiumi, le risorse di acqua potabile già scarseggiano in molti distretti, il fenomeno della desertificazione, con la conseguente perdita delle superfici arabili è comune in tutta la parte settentrionale del Paese. Quanto all'intenzione di trasferire lo sviluppo dalle esportazioni al mercato interno, incentivando l'affermarsi di un nuovo ceto borghese, va detto che il tasso di sviluppo del sistema dovrebbe mantenersi elevatissimo ancora per molti anni. Tale previsione, però, storicamente non si è mai verificata; anzi, la Cina si trova di fronte ad un deficit di materie prime strutturale: Pechino importa attualmente già i 2/3 del minerale ferroso prodotto nel mondo, il 45% dell'alluminio e il 42% del rame. Per quanto attiene alla delocalizzazione, il Paese deve confrontarsi già ora con la concorrenza di altre economie emergenti dell'Asia: il Vietnam, la Cambogia, le Filippine, il Myanmar (Birmania) e nel prossimo futuro scenderanno nell'agone anche diversi Paesi africani. Il riequilibrio dalle produzioni a basso costo a quelle high tech richiederebbe investimenti ben superiori a quelli previsti (che pure sono passati dallo 0,90% all'1,84% del PIL), senza tenere conto dei costi occulti rappresentati dalla endemica corruzione della burocrazia statale e dalla tendenza delle imprese pubbliche ad assumere decisioni in base a valutazioni di carattere politico e non economico: ne è prova l'elevato ammontare delle sofferenze nascoste nelle pieghe dei bilanci delle banche cinesi, che nessuno in Occidente è veramente in grado di quantificare. Sarebbe interessante, poi, ipotizzare in che misura fenomeni come il turismo o - soprattutto - internet - nonostante le censure del regime, possano innescare fra la popolazione un desiderio di libertà, uno spirito di indipendenza tali da far esplodere nel tempo la più macroscopica delle contraddizioni: "l'economia socialista di mercato". Da ultimo, non si possono sottovalutare gli effetti di carattere demografico generati dalla ultra trentennale politica del "figlio unico": la società cinese, infatti, sta invecchiando in modo preoccupante. Le proiezioni al 2050 indicano un declino da 1.350 a 1.310 milioni di abitanti, mentre l'India crescerà da 1.259 a 1.458 milioni di persone. Molti analisti, per questa e per altre ragioni, propendono a scommettere più sull'India che sulla Cina nell'arco dei prossimi 30/40 anni.

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