#Spagna, sangue, arena e austerità

Anche se la crisi greca continua ad occupare le prime pagine dei giornali, nel mentre si addensano nubi minacciose anche all’orizzonte della Slovenia, è bene non dimenticare l’evolversi della situazione in Spagna che da sola rappresenta più del doppio delle economie della Grecia, del Portogallo e dell’Irlanda, tre dei Paesi già oggetto di bail out da parte dell’Europa e dell’IMF. 

A partire dalla fine degli anni ’90 e sino al fatale 2007/2008, l’economia iberica faceva registrare una lusinghiera performance, con un tasso medio di sviluppo del 3,7%, un bilancio in situazione di sostanziale equilibrio ed un debito pubblico contenuto in limiti accettabili: ancora nel 2010 il rapporto debito/PIL era del 72%, contro il 77% della Germania, ed anche ora al 92% regge il confronto con l’82% tedesco.
Siamo, dunque, al di fuori della stucchevole diatriba fra le virtuose formiche del Nord e le prodighe cicale dell’Europa mediterranea. Fatto sta che la crisi ha colpito duramente il Paese iberico, come gli altri partner europei, ma le ragioni strutturali dell’attuale sofferenza economica sono evidentemente anche altre.

Nel 2000, l’indebitamento del settore privato – incluse ovviamente anche le banche – in Germania era pari al 165% del PIL, nel 2010 era sceso al 164%; le analoghe cifre per la Spagna parlano del 187% salito nel 2010 al 283% (!). In altre parole, in questo arco di tempo il Paese è stato letteralmente inondato da un flusso imponente di capitali a buon mercato – provenienti in larga parte dalla Germania – con cui sono state acquistate merci – soprattutto tedesche; il settore edilizio ha conosciuto uno sviluppo ipertrofico, che ha innescato una enorme bolla speculativa, con i prezzi degli immobili pressoché raddoppiati a partire dal 2000; attualmente, esplosa la bolla, sono scesi del 33% ma, in particolare nelle località turistiche, l’offerta si confronta con una domanda allo stato inesistente.

L’apparente prosperità che si è determinata al principio di questo caratteristico ciclo “boom-bust” si è riflessa anche sui costi di lavoro che hanno subito una forte impennata: fatti eguali a 100 i livelli salariali della Germania nel 2000, le cifre parlano di un livello nel 2011, per gli Iberici, di un valore di 135, con una decisa perdita di competitività.

La grande crisi del 2007/2008 ha dunque rivelato ed esacerbato una situazione preconizzata già da molti illustri economisti: la creazione di una moneta unica fra aree economiche eterogenee non favorisce la convergenza fra le stesse ma determina nel tempo una ulteriore divergenza per la quale le economie forti diventano sempre più egemoni e lucrano una posizione di vantaggio sulle meno competitive, destinate ad indebolirsi ulteriormente. E ciò a prescindere da fatti contingenti propri di questo o quel Paese. La Grecia è implosa certamente perchè non rispettava i principali parametri economici ma la Spagna, pur vantando rapporti – come si è visto – non inferiori a quelli della Germania, sta scivolando sul medesimo piano inclinato.

Che fare? Il Paese iberico si trova di fronte ad un drammatico dilemma: continuare sulla strada già intrapresa del solo consolidamento fiscale e salariale, in mancanza di una valuta nazionale da svalutare, non può che aggravare la recessione: l’economia continua a contrarsi, la disoccupazione al 27% è già a livelli ellenici, l’IMF ha recentemente effettuato un downgrading delle sue previsioni per il 2014 dallo 0,7% allo 0%; nel 2015 ipotizza una crescita dello 0,3% e solo a partire dal 2018 prevede un incremento dell’1,2%, un tasso molto lontano da un’autentica job creation.
Attualmente uno spagnolo su quattro è a rischio di povertà o di esclusione sociale.

In mancanza di drastiche misure, però, il Paese rischierebbe il collasso economico in tempi brevi. Il Governo deve quindi procedere su un filo di rasoio: occorre quantificare il reale fabbisogno finanziario delle banche, a fronte dei teorici 100 miliardi stanziati dall’Europa per il loro salvataggio. E’ necessario che i diciassette Governi regionali riportino sotto controllo la rispettiva spesa pubblica ma un maggiore rigore da parte di Madrid rischierebbe di alimentare tentazioni indipendentiste, dalla Catalogna ai Paesi Baschi.

Il Governo Rajoy sarà all’altezza del compito? 

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