E’ lo spread, non le tapas

Lo spread schizza alle stelle, l’attacco all’euro continua e, mentre l’Unione europea si accascia ferita da un’emorragia inesorabile, i governi cercano di salvarci con un cerotto.
Intendiamoci, non è colpa di tutti gli esecutivi. Stiamo messi su di una brutta china per colpa dei rigoristi del Nord Europa, Germania, in primis. Né è facile convincere l’opinione pubblica tedesca che, per salvare se stessi, bisogna sussidiare l’Europa mediterranea in sofferenza e rilanciare il progetto europeo.

Nella breve durata, quella che scandisce elezioni e consenso, i contribuenti tedeschi, olandesi e finlandesi avrebbero la sensazione di pagare per i vizi e la prodigalità delle inefficienti burocrazie del Sud Europa. Ma, in realtà, esiste fra il centro e la periferia d’Europa un rapporto di dipendenza, dove la subalternità dell’un paese è funzionale alla forza dell’altro.
I creditori dei paesi del Sud sono proprio le banche del Nord Europa, e la domanda interna spagnola, ad esempio, drogata dalla speculazione immobiliare, è servita per comprare soprattutto Mercedes, non tapas e tortillas.

La recessione nell’Europa mediterranea, d’altronde, è prodotta anche dalla scriteriata politica antinflazionistica e di moderazione salariale praticata dalla Germania. A partire dall’unione monetaria, nel 1999, infatti, la produttività tedesca è cresciuta e i salari restavano fermi.
Così, i costi unitari del lavoro in Germania sono diminuiti di circa il 25% dalla creazione dell’euro, rispetto ai paesi del Mediterraneo, e si è determinato uno shock asimmetrico: Berlino in avanzo e l’eurozona sud in recessione.
La Germania, inoltre, piazza titoli a bassissimo rendimento, mentre i meno virtuosi Paesi di Eurolandia sono gravati da un tasso d’interesse del 6%. Berlino, così, drena il nostro risparmio in cerca di sicurezza, mentre patiscono le casse dei paesi del Sud, in primis l’Italia e la Spagna.

Ma con la contrazione della domanda interna latina, chi comprerà la solida e affidabile merce tedesca?

Di sicuro i tedeschi, senza un aumento dei salari, non compreranno un surplus di merce italiana, dato che oggi non possiamo fare il gioco della svalutazione della liretta per esportare di più.
La teoria, infatti, ci suggerisce che, data un’unione monetaria afflitta da shock asimmetrici, si potrebbe riequilibrare il sistema con la svalutazione del paese in sofferenza. In un’unione monetaria sarebbe necessario invece che il paese in avanzo aumentasse i salari. Una scelta solidale a cui la Bundesbank si è opposta con tutte le proprie forze. Le altre opzioni possibili, d’altronde, sono impraticabili. Come il trasferimento dei lavoratori dei paesi in recessione verso il centro, ostacolato dalla barriera linguistica e dalla mancanza di un sistema pensionistico unico europeo, o un’ulteriore compressione dei salari della periferia, impraticabile per gli alti costi sociali. L’unica possibilità, quindi, è ridistribuire le risorse su scala europea, e i fondi salva stati svolgono proprio il ruolo dei sussidi. Nulla di nuovo sotto il sole, dato che Robert Mundell, con la teoria dell’Area valutaria ottimale, contemplava il sussidio come politica di riequilibrio nelle unioni monetari afflitte da shock asimmetrico permanente.
Il problema dei sussidi, e quindi dei fondi, è che devono essere potenti abbastanza per funzionare, nel caso specifico placare la speculazione verso Spagna e Italia, ma non essere eccessivi né concessi in modo lasco, al punto di innescare un circolo vizioso in base al quale i governi che ne facciano richiesta continuino ad indulgere in politiche scriteriate, e non avviino serie riforme interne per aumentare la competitività.
Insomma, per quanto mortificanti, le ispezione della troika hanno una loro ratio. Si dovrebbe, invece, giustamente discutere dei tassi d’interesse eccessivi che i paesi devono corrispondere al Fmi o di scelte politiche imposte dall’alto errate, come le privatizzazioni di settori che, fragili di fronte alla concorrenza internazionale, finiranno nelle mani di grosse corporation, allorquando gli stati insolventi si troveranno costretti a vendere i loro asset.
Ritornando al caso dell’Unione Europea, purtroppo, ad oggi non sappiamo neanche quando il fondo salva stati permanente entrerà in vigore, pendendo un giudizio di costituzionalità sullo stesso presso la Corte di Karlshrue. Ma la verità è che il fondo, così com’è, non può funzionare e non ci salverà.
La capacità di prestito dello Esm, quando e se entrerà in vigore, sarà di 500 miliardi di euro. Troppo poco per convincere gli speculatori a non scherzare con la moneta unica. Per calmierare gli spread italiano e spagnolo, infatti, secondo il Fondo monetario internazionale, servirebbero circa 600 miliardi. L’opzione che i Fondi intervengano direttamente nell’acquisto dei titoli di Stato nel mercato primario, voluta fortemente da Monti, inoltre, continua ad essere osteggiata dal fronte del rigore, e lo stesso status di creditore privilegiato per lo Esm, deciso sulla carta, è messo in crisi da una furba proposta finlandese che vorrebbe che i bond fossero coperti dai collaterali, per evitare il taglio sugli interessi dei creditori privati, cioè le banche del Nord Europa.

Il problema che il plafond sia insufficiente, d’altronde, è stato evidenziato anche dall’Oecd che riterrebbe utile che i Fondi fossero dotati di una licenza bancaria che consentisse loro di essere alimentati direttamente dalla Banca centrale. Si tratterebbe di un buon compromesso per rafforzare i Fondi ed evitare che Francoforte diventi direttamente il pagatore di ultima istanza, una soluzione che presupporrebbe gli eurobond invisi alla Merkel e che potrebbe ingenerare pericolosi comportamenti opportunistici da parte degli indisciplinati paesi latini che scaricherebbero sul contribuente nordico i costi dello sforamento dei bilanci.

Infine, in politica, è esiziale la sbagliata scelta dei tempi. Per via del giudizio di Karlshrue, lo scudo antispread è congelato insieme al’Esm, mentre la speculazione contro l’euro impazza e potrebbe avere il suo drammatico apice ad agosto. L’Europa dovrebbe decidere ora e non dopo. E sarebbe fondamentale che la scelta fosse fatta dall’organo democraticamente eletto e titolato a prendere scelte per i popoli d’Europa: il parlamento europeo, che ha più volte votato a favore degli eurobond. Invece, fino all’elezione di Hollande, le scelte sono state blindate in incontri bilaterali fra la Merkel e Sarkozy, che hanno imposto all’Unione la loro testarda opposizione ad ogni ipotesi di mutualizzazione del debito.
Una scelta economicamente sbagliata. Ma, sopratutto, scarsamente democratica.

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